Daniele Maurizi

IMPRONTA DELL’ORIGINE

La ricerca di Daniele Maurizi (Fermo, 1971) si concentra su un punto, o meglio, su un luogo: che sia un luogo geografico, fisico o mentale, poco importa. Che sia una strada, un volto o un edificio in rovina, ciò che risulta sempre rilevante è lo sguardo: quello rivolto al soggetto ma anche lo sguardo, se così possiamo chiamarlo, del soggetto che viene ripreso.
Certo, nel caso di un volto, è facile, da parte dell’osservatore, notare come si ponga il soggetto; più difficile diventa quando esso è inanimato, eppure l’osservatore viene chiamato a interrogarsi proprio su questo sguardo, che è esattamente quello di chi viene osservato, come una sorta di immedesimazione.
Credo che risieda proprio qui la peculiarità degli scatti di Daniele Maurizi.
Possiamo sorvolare sui dati prettamente biografici dell’autore di queste immagini, anche se il luogo in cui è nato e in cui vive, il Piceno, è determinante, sia quando è chiamato – dal luogo stesso – a indagare su ciò che caratterizza in maniera innegabile il paesaggio (fisico, geografico) che lo circonda, sia, nondimeno, quando il suo sguardo è rivolto altrove, talvolta anche verso mondi a lui lontanissimi.
Ora, seppure siano state tutte esperienze fondamentali per la sua formazione nonché per la sua crescita artistica, poco importa sapere delle numerose esposizioni che l’autore ha fatto nel corso della sua vita, così come, del resto, non è rilevante sapere che ha lavorato per riviste, agenzie pubblicitarie, enti pubblici e privati, aziende e università; ciò che invece importa, più di tutto, è quello che queste immagini ci trasmettono e, al contempo, cercare di comprendere quale sia il loro intento.
Allora interroghiamoci su questo aspetto: come se l’immagine che abbiamo davanti ci chiedesse di trascrivere l’emozione che viviamo guardandola. Non si tratta esclusivamente di osservarla, si tratta anche di andare oltre, come del resto essa ci impone, persino quando non la stiamo più guardando.
In questo senso ho parlato di immedesimazione, ossia una comunicazione trasversale di linguaggi: uno, primario, non verbale, uno verbale e uno emotivo. Anzi, come se il senso profondo di queste immagini fosse proprio il tentativo di rendere unitario, indissolubile, il linguaggio stesso. Linguaggio fotografico, visivo, in questo caso, ma che spinge a chiamare a sé anche gli altri.
In tutti i casi, a determinare la cifra stilistica delle opere di Daniele Maurizi, che le accomuna, è l’impronta dell’origine: come se, qui davanti, ritrovassimo sempre la sua passione, che lo ha attratto verso il materiale fotosensibile sin da bambino, e come se la sua costante risorgenza ne costituisse il fulcro creativo.
Immagini diverse, certo, anche diversissime, soggetti variegati (paesaggi, ritratti, architettura industriale, ricerca documentaristica, luoghi, talvolta lontani, spesso vicinissimi, quotidiani) ma accomunati sempre da questa impronta luminosa, che domina ovunque, in ogni momento, come una necessità espressiva ineludibile e che coinvolge inesorabilmente chi guarda: in questo senso, tra il soggetto ritratto e l’osservatore, scaturisce una sorta di immedesimazione, una vera e propria condivisione e, di conseguenza, una profondissima, inderogabile riflessione.
L’immagine fotografica è sempre un istante immobile, ma qui lo sguardo dell’autore sceglie esattamente il momento in cui tutto ciò che vediamo ci spinge ad andare oltre: l’immagine è fissa, ma lo sguardo dell’osservatore non può essere immobile e noi non smettiamo mai di pensare. In questa spinta alla riflessione, estetica e politica dello sguardo si incarnano, si incontrano e si disvelano: qui, ogni volta, grazie all’impronta dell’origine, siamo sempre davanti a un istante decisivo.

Massimo Pasolini

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